sabato, ottobre 25, 2008

Nello stadio dell'orrore Viaggio in Cile, 35 anni dopo

Scosse elettriche, botte, morti: un giornalista ricorda le sevizie di massa all'Estadio Nacional dopo il golpe di Pinochet in Cile

SANTIAGO (Cile), 26 ottobre 2008 - L'appuntamento con Alberto "Gato" Gamboa è al suo giornale, La Nacion, nel palazzo di fronte alla Moneda, ma a Santiago è un mattino di primavera così caldo e luminoso che lui quasi ci trascina in un caffè all'aperto. "Lì dentro è troppo buio — esclama — e oggi le Ande sono bellissime". Mentre parliamo, una quantità di passanti saluta con reverenza questo piccolo ed energico signore di 84 anni che l'11 settembre 1973, data del colpo di stato del generale Pinochet contro il presidente Allende, era il direttore del Clarin, primo giornale del Cile («tiravamo 250 mila copie, 400 mila la domenica, cifre mai viste prima e dopo») e vicino al governo. Il quotidiano fu chiuso dai golpisti lo stesso 11 settembre, Gamboa venne arrestato il 20. "Molto ingenuamente, mi feci trovare in casa all'ora di cena. Venni caricato assieme ad altri arrestati su un camioncino. Capii subito che ci stavano portando all'Estadio Nacional".
TUTTO UGUALE - Lo stadio nazionale di Santiago non è un impianto isolato, ma la struttura principale di un vasto comprensorio sportivo non distante dal centro. Col racconto di Gamboa ancora nelle orecchie, ne percorriamo i camminamenti, le scalinate, gli angusti corridoi che portano agli spogliatoi, le sale retrostanti la tribuna d'onore. Se si esclude la posa dei sedili di plastica, resi obbligatori dalla Fifa, nulla è cambiato dal 1973. "L'Estadio Nacional è stato utilizzato come campo di concentramento per prigionieri politici dall'11 settembre al 9 novembre. Ci sono passate 40 mila persone, il numero di morti non è mai stato chiarito; il regime ne ammise 38, stime realistiche superano il migliaio. La mattanza avvenne nei primi giorni, quando io ancora non c'ero. Non ho mai visto un'esecuzione, gli assassini agivano fuori da qui. Ogni tanto un gruppo di prigionieri veniva portato via dallo stadio, qualcuno l'ho poi rivisto, di molti non se ne è saputo più niente".
LA TORTURA - Sotto le tribune c'è un corridoio che collega i vari settori dello stadio. E' stretto anche nella zona degli spogliatoi principali. «Dormivamo qui, ammassati nell'oscurità. I posti più ambiti erano i gabinetti, perché almeno ci si poteva sedere sulla tazza senza spezzarsi la schiena. Ma quando iniziò la tortura, tutti i luoghi diventarono uguali perché il dolore ti impediva comunque di dormire». Al mattino veniva piazzato un disco di metallo nero al centro del campo e il colonnello Espinoza, responsabile dello stadio, radunava lì i «prescelti». "Poi si partiva per il velodromo". Lo raggiungiamo con una breve passeggiata, l'anello in cemento è nell'angolo sud-ovest del comprensorio. Trentacinque anni fa questa stessa passeggiata era l'angoscioso preludio all'orrore. "Mi hanno torturato sette volte in cinquanta giorni — dice Gamboa come se la cosa fosse successa a un altro — scosse elettriche dappertutto, specie ai genitali. Era molto doloroso".
IL RITORNO - Di cosa la accusavano, Alberto? Perché tanto accanimento? "Volevano sapere dove avessi nascosto le armi. Cretini. Le armi di un giornalista non fanno bang, sono di altro tipo. E poi confondevano l'entusiasmo col quale lavoravamo con l'adesione a un piano segreto di riorganizzazione della società cilena. Il nostro è un mestiere che o si fa con entusiasmo, o non si fa. Cercavo di spiegargli che quand'ero ragazzo, e venivo in questo stesso stadio per scrivere le cronache sportive, ero felice. Non lo accettavano, giù un'altra scarica". Com'è stato tornare qui a vedere una partita, tanti anni dopo? "Difficile la prima volta. Poi mi sono convinto che era una forma di rivincita. Quando sei così totalmente alla mercé di qualcuno, non pensi davvero di poterne uscire. Ti dici "va bene, presto morirò, vediamo quanto riesco a resistere". C'è qualcosa dell'atleta che lotta per battere un record. Sì, tornare qui a vedere il Colo Colo è stata una vittoria".
SEPARAZIONE - Migliaia di cileni riempiono lo stadio, è la grande notte del trionfo sull'Argentina. Chissà quanti di questi signori in tribuna d'onore... "Non se lo chieda. Questo è un Paese nel quale gli orrori non sono stati puniti, e dunque torturatori e torturati di un tempo si incontrano al supermercato. Non è un modo di dire: a me è successo, e quell'uomo mi ha abbracciato dicendo "Gato, sono contento di vederti qui". E' stato impressionante, certo. Mai però come l'altra storia che racconto sempre, quella che meglio descrive l'abisso nel quale eravamo caduti. Ero a terra dopo una scarica violentissima, mi contorcevo dal dolore, ma vagamente sentivo ciò che si dicevano il soldato torturatore e il medico che doveva controllare che non morissi. "Dottore, ho esagerato ma devo dargliene una seconda, è la regola. Posso passargli una scarica leggera subito, ho la ragazza che mi aspetta al cinema per vedere Il Padrino?". Capisci? Riusciva a separare il lavoro di aguzzino e la vita privata come se fosse in ufficio. C'era gente che passava il giorno a massacrarci, e a sera tornava a casa e baciava i suoi bambini come se niente fosse".
TRIBUTO - Considerate se il rispetto verso quest'uomo eccezionale, che si allontana con passo svelto nella piazza della Moneda, lì dove hanno eretto una statua a Salvador Allende, non debba ispirarci una posizione più ferma contro le nostre penose guerricciole da stadio. "Considerate se questo è un uomo" ammoniva Primo Levi, a noi "che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case". E poi diceva "meditate che questo è stato", e in tempi di revisionismi diventa un'autentica missione. L'Estadio Nacional di Santiago è un lugubre monumento al diaframma che divide il bene e il male, l'utilizzo dello stesso luogo come teatro alternativo della gioiosa passione sportiva e della massima abiezione umana, la tortura. Ormai è sera quando ne usciamo tra ali di folla entusiasta per la vittoria. Prima di dormire, cerchiamo su YouTube la scena amarissima di «Missing» nella quale Jack Lemmon, padre di un ragazzo americano ucciso qui dentro nei giorni del golpe, ancora ignaro lo cerca allo stadio. E' il nostro tributo, al «Gato» e al suo Cile. Fatelo anche voi.
dal nostro inviato


Paolo Condò

venerdì, ottobre 17, 2008

La cosa piu' ingiusta della vita é come finisce.
Voglio dire: la vita è dura e impiega la maggior parte del nostro tempo...
Cosa ottieni alla fine? La morte.
Che significa ! Che cos'è la morte ? Una specie di bonus per aver vissuto?
Credo che il ciclo vitale dovrebbe essere del tutto rovesciato.
Bisognerebbe iniziare morendo, così ci si leva subito il pensiero.
Poi in un ospizio dal quale si viene buttati fuori perchè troppo giovani.
Ti danno una gratifica e quindi cominci a lavorare e per quarant'anni, fino a che sarai sufficientemente giovane per goderti la pensione.
Seguono, feste, alcool, erba ed il liceo.
Finalmente cominciano le elementari, diventi bambino, giochi e non hai responsabilita' diventi un neonato, ritorni nel ventre di tua madre, passi i tuoi ultimi nove mesi galleggiando, e finisci il tutto con un bell'orgasmo !

Woody Allen

"La gente ha paura di quello che non riesce a capire."

"Ci vorrebbe qualcuno con cui ridere, parlare... Ma non una puttana, un amico. Ecco, gli amici, quelli si: proprio una gran voglia di vederli, di star con loro, ma a quest'ora l'unica é andare a casa..."

Sono testimone della mia era. Passo alla lente d'ingrandimento quello che mi accade intorno senza giudizi e con molte domande....